La chiesa originaria risale al secolo XIII ed era dedicata ai Dodici Apostoli. Attigua alla Chiesa era stata costruita un’ampia casa abitata da alcuni canonici regolari di sant’Agostino. Era a capo di questa comunità il canonico Ardizione.

Raimondo Zanfogni, per tutti Raimondo Palmerio, (forse così chiamato per la palma che portò con sé al ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa), si rivolse al canonico Ardizione e gli espose il suo progetto, già approvato dal Vescovo, di voler costruire un Ospedale e ottenne così da lui una casa vicino all’orto della canonica e, per il benefico intervento del signor Alberto Moroni, fu in breve tempo realizzato un ospedale dove trovavano ricovero poveri di ogni genere.

Raimondo andava per le vie della città con una croce sulle spalle, invocando pietà e carità per tutti quei poveri. In seguito molte persone vennero ispirate ad unirsi a lui per coadiuvarlo nella sua grande opera di carità.

Dopo la morte di Raimondo, avvenuta il 28 Luglio del 1200, continuarono a verificarsi fatti miracolosi e vennero concesse tante grazie a tutti coloro che chiedevano la sua intercessione, mentre da molti luoghi accorrevano fedeli per venerarne il santo sepolcro posto appena fuori della chiesa dei Dodici Apostoli!

il Cristo posto sulla parete absidale della Chiesa di San Raimondo

Insediamento delle monache cistercensi

Nel 1228 alcuni nobili avevano fondato un Monastero sotto il titolo di “Santa Maria di Nazareth”, non molto lontano dalla porta della città e che venne abitato dalle Monache Cistercensi, con a capo santa Franca, ma che fu esposto ai pericoli delle guerre ed alle scorrerie dei soldati. Le monache nel 1414 chiesero al Papa di poter abitare nella casa abbandonata dai canonici di sant’Agostino e di poter officiare nell’annessa Chiesa dei “Dodici Apostoli”.

La notorietà di san Raimondo

Crebbe tanto la devozione al santo che, non solo la chiesa, ma anche la contrada che vi scorre dinanzi e la vicina porta della città, furono denominate di “San Raimondo”! Il rione “San Raimondo” ha resistito fino agli ultimi decenni dell’ottocento – primi del novecento, quando l’omonima porta è stata abbattuta per far spazio all’ospedale militare, quando l’omonima strada ha dovuto cambiare nome per celebrare il primo re d’Italia e quando, infine, per l’espansione urbanistica verso il Belvedere, ha fatto dimenticare che un tempo non tanto remoto, qui si era in zona di confine. Papa Martino V, con il suo decreto, stabilì che anche le monache avrebbero dovuto assumere il nome di “Monache di San Raimondo”.

Verso il 1600 il corpo del santo si trovava sepolto fuori della Chiesa, così le monache lo collocarono in un luogo sicuro all’interno della Chiesa, dietro l’altare del coro.

La chiesa attuale fu ricostruita nel 1731 (progettata da Marco Antonio (o Marco Aurelio) Dosi (o Dosio) e consacrata nel 1733. La facciata fu completata nel 1776.

Il governo francese e la diaspora

Purtroppo nel 1810, per ordine del governo francese, tutti gli ordini religiosi vennero soppressi; le Monache furono disperse, mentre il corpo del santo venne trasferito in Cattedrale e posto nell’urna che si trovava sotto la mensa dell’altare dedicato ai diecimila crocifissi; la chiesa ed il Monastero furono ridotti a magazzini demaniali.

Nascita della comunità monastica benedettina

Nel 1827 una piissima religiosa, donna Maria Teresa Maruffi, già monaca Benedettina Cassinese, cacciata, come tutte le altre monache dal suo Monastero “Madonna della Neve”, radunò alcune religiose disperse qua e là e comperò la chiesa ed il monastero di san Raimondo che fece riparare ed ampliare con l’aggiunta di un collegio per l’educazione e l’istruzione delle giovani. Qualche anno dopo, la Chiesa venne restaurata sempre con il suo patrimonio e fu ufficialmente aperta al culto nel 1834, mentre il 10 Maggio dello stesso anno, con grande gioia e partecipazione di popolo, vi fu trasportata l’urna contenente il corpo di san Raimondo.

La Comunità venne canonicamente eretta il 15 Luglio del 1835 ed aggregata alla congregazione Benedettina cassinese.

Il Regno d’Italia e il nuovo esodo

Nel 1860 una nuova bufera si abbattè sulle monache. l’Emilia Romagna fu annessa al Regno d’Italia: conseguentemente vi furono applicate le leggi contro gli Istituti religiosi emanate nel 1855 negli stati piemontesi.

I beni furono confiscati, le monache vennero trasferite prima presso l’Istituto delle Dame Orsoline, quindi, nella Casa del Clero “Pio Ritiro Cerati”.

Si aggiunse la proibizione di ricevere nuove postulanti.

Questo voleva dire una condanna a morte per esaurimento.

Nuovi inizi

Altri erano, invece, i disegni della Divina Provvidenza: le superstiti poterono ritornare a san Raimondo il 27 Novembre 1869.

L’anno seguente (13 Novembre 1870), la Chiesa venne riaperta al culto. Nuove postulanti non si fecero attendere molto: la vita di comunità riprese a pieno ritmo, pur conservando le attività introdotte da Maria Teresa Maruffi.

Dopo la seconda Guerra Mondiale si decise di trasformare il vecchio educandato in una scuola interna: insegnanti erano le monache stesse e si ottennero risultati soddisfacenti.

Intanto gli anni passavano senza gravi difficoltà; poi venne il Concilio Vaticano secondo e con esso affiorò un nuovo problema: come conciliare una vocazione contemplativa con opere che impegnavano l’intera giornata di parecchi membri della Comunità? La risposta fu molto pratica: non senza difficoltà e sacrifici, nel 1967 vennero chiusi il Collegio e la Scuola Media.

Dal 1935 al 1970 la Chiesa fu sede dell’Adorazione Perpetua; purtroppo, però, essendo la Chiesa piuttosto lontano dal centro cittadino, l’autorità ecclesiastica trasferì altrove questa iniziativa.

La Chiesa fu restaurata e quindi riaperta al pubblico il 7 Novembre 1971: in quell’occasione fu dichiarata “Centro Liturgico Diocesano” ad iniziativa dell’allora vescovo Monsignor Enrico Manfredini.

Notizie artistiche

La Chiesa è costruzione di stile barocco (1700), ha forma di croce greca ed è sormontata da una cupola ottagonale assai pesante in rapporto alla mole della fabbrica, mentre la facciata fu eseguita alquanto dopo, nel 1776; una soluzione tradizionale, legata al modello rinascimentale che ha come esempio in Piacenza la Chiesa di santa Maria di Campagna dell’architetto piacentino Alessio Tramello (1455 – 1535).

LE QUATTRO VIRTU’ CON GLI OTTO PUTTI

Altezza delle Virtù: 250 cm circa – Anno di esecuzione: dopo il 1760 – Sculture in legno monocromo.

La tradizione ottocentesca attribuiva al “Ghernardi piacentino” (cioè il Geernaert, artista fiammingo )il gruppo delle quattro Virtù. Recentemente questo dato ha trovato la conferma documentaria nell’attestazione del figlio Giacomo: “ … Le sue opere sono sparse nello stato Piacentino, una delle quali, fatta con impegno, si trova nella Chiesa delle monache Benedettine di san Raimondo e sono quattro virtù gigantesche, con otto Putti …”); purtroppo non viene indicato quando vennero eseguite.

Questo gruppo di statue è sempre stato riferito al Ghernardi, anche se sovente, dalla lettura delle varie citazioni, si ha la netta impressione che dell’autore null’altro fosse noto all’infuori del nome.

Quanto alla datazione delle opere, sono possibili alcuni riferimenti oggettivi.

Sapendo che l’edificazione della chiesa avvenne tra il 1729 ed il 1733 ad opera del capomastro Simone Buzini e che la facciata fu conclusa parecchi anni dopo, nel 1776 su disegno di Giuseppe Dosi, la data di riferimento per la decorazione plastica è da ritenersi più vicina alla definitiva conclusione dei lavori piuttosto che alla fase iniziale.

L’importante complesso scultoreo, conclusivo dell’intera struttura, non poteva essere affidato ad un giovane scultore straniero (all’epoca Geernaert non aveva ancora trent’anni) e da poco giunto in città.

Lo stile delle opere e la maturità che denunciano depongono per la loro esecuzione ad anni successivi al 1760. Utile a questo proposito è il raffronto con le Virtù di Cortemaggiore del 1772 ; una venatura di compiacimento accademico traspare dal perfetto gioco dei panneggi, veri e propri pezzi di bravura, divertissement dell’autore.

Leggero e frusciante, il panneggio della Fede conferisce ulteriore morbidezza alla figura marcatamente serpentinata.

Più ricadente, più stagliato a spigoli è il drappeggio del manto della Vigilanza e della Carità, il cui bordo a frangia, uguale in ambedue le statue, verrà ripreso identico nella Fede di Cortemaggiore. Ancora stagliato a spigoli, ma recante leggerezza e movimento, è il panneggio della tunica dell’Umiltà.

Le grandi Virtù, rappresentate da donne belle e giovani, sono armonizzate nel loro insieme: il ricorso ad atteggiamenti posturali ed espressivi collegabile simmetricamente, viene disposto al fine di amalgamare ed equilibrare le statue nel loro insieme.

Non sono figure l’una accanto all’altra, ma sono reciprocamente legate: nota comune a tutte è la costruzione elegante della figura facendo ricorso ad un marcato “anchement” (meno evidente nella Carità), però due di esse hanno le braccia scoperte fino al gomito e due hanno maniche coprenti sino ai polsi; e ancora: per due lo sguardo è rivolto verso l’alto e per due verso il basso, inoltre, due poggiano il peso del corpo sul piede sinistro e due sul destro.

Indubbiamente queste alternanze non sono casuali, ma appaiono solamente a chi vuole indagare; il loro effetto è quello di legare con simmetrie ed asimmetrie l’intero gruppo.

La dolcezza dell’espressione è comune alle quattro giovani, ma la gestualità è diversa; i colli allungati sostengono le teste tutte perfettamente ovali.

Identico è l’appoggio: un gradino smussato ed arcuato poggiante su una mensola mistilinea che viene sorretta da una conchiglia la quale trattiene un festone Luigi XVI di derivazione parmense.

Il tema delle Virtù qui rappresentato è tra i più ricorrenti del secolo ed in particolare nell’Emilia. Fu un tema parimenti utilizzato per la decorazione plastica tanto civile che religiosa. Le Virtù “proprio perché raccomandate dalla Chiesa, quanto dalla buona educazione, non si sa se siano prerogative religiose oppure laiche, o non piuttosto la generica codificazione di un comportamento sociale fondato sulla specifica convivenza di una religiosità priva di fanatismo ed eccessi e di una laicità aliena da atteggiamenti radicali. In ogni caso non si tratta di Virtù specificamente religiose.”

Per la loro definizione nel novero di tutte le possibili Virtù, anche Geernaert ricorre ai simboli che tradizionalmente le distinguono in base alle convenzionali codificazioni dei repertori iconografici in uso.

Gli otto Putti che, a due a due, affiancano alla base le statue, recano altri evidenti simboli che concorrono alla definizione dell’idea rappresentata. Questi Putti, anzi, questi angioletti, perché hanno piccole ali che danno loro la connotazione sacra, sono colti in un vivace movimento, tutti in pose differenti e giocose e sono ornati con piccoli perizomi sfuggenti e svolazzanti.

UMILTA’: è contraddistinta da numerosi attributi che ne sottolineano i caratteri: lo sguardo abbassato, la sfera simbolo di universalità, la corona regale rovesciata sotto il piede, lo scettro caduto e rotto, come pure è spezzato l’arco che è fra le mani del piccolo angelo ed infine l’agnello che indica l’umiltà ed il cordone annodato alla vita.

L’elemento degli occhi abbassati che nel contesto del gruppo fungeva come reciproco rapportarsi delle statue (due con gli occhi bassi e due con gli occhi al cielo), viene assegnato in maniera pertinente alla virtù specifica, essendo simbolo di Umiltà. Sul capo è posto un semplice ornamento e dal capo discende una fascia mossa da un colpo di vento.

ELEMOSINA (CARITA’): è in atto di incedere, mentre nelle mani regge alcuni frutti ed un sacchetto di monete; sul capo reca una coroncina adorna di cinque piccole sfere.

I due angioletti recano entrambi del pane e quello di destra effettua una torsione completa del busto.

La figura è costruita secondo una linea serpentinata appena accennata ed il manto che ricopre la veste è ricco e sontuoso, senza però eccessi di alcun genere.

VIGILANZA: di linea marcatamente serpentinata, la giovane reca una lucerna, guarda verso il cielo, quasi a ricercare il nascente chiarore. Ai suoi piedi, uno degli angioletti mostra un campanello, monito allo stare desti e l’altro trattiene un gallo: il gallo, animale vigile per natura, preannuncia la luce del giorno.

Il manto di questa statua è stagliato a spigoli e ricade sul davanti con un gran pizzo triangolare, come nella Fede di Cortemaggiore (1772). Uguale è anche il motivo della frangia. La veste sottostante è adornata da un fermaglio a testina di bimbo che ferma la chiusura a perline del corpetto: nell’insieme è un abito che denota accurata eleganza.

FEDE: la veste frusciante ed aderente al corpo costruito su una linea accentuatamente sinuosa suscita l’idea della fiamma. Una figura “fiammeggiante”, dunque, che bene attiene a ciò che rappresenta: la Fede.

Ancora una ricca rappresentazione simbolica: oltre alla figura nel suo insieme, prorompono in modo evidente o velato tanti altri riferimenti simbolici: lo sguardo al cielo, connotazione della Fede, (come lo sguardo abbassato connota l’Umiltà) e la mano al cuore (come nella Fede di Cortemaggiore) e poi il cuore fiammeggiante ed il blocco squadrato di pietra su cui poggia il piede.

Anche in questo caso i giocosi angioletti collaborano a rafforzare l’idea di fede, recandone gli strumenti: la corona del Rosario, il libro della preghiera ed un turibolo.

Il chiostro

Adiacente alla Chiesa settecentesca di san Raimondo sorge lo splendido chiostro cinquecentesco, porticato sui quattro lati. Di forma rettangolare, cinque arcate sul lato più corto e sei sul lato più lungo, si sviluppa in verticale con colonne di ordine dorico al piano terra a cui è sovrapposto, al primo piano, un porticato con eleganti colonne di ordine ionico.